Se sei nato e cresciuto a Milano, il Monte Stella è la collina delle
macerie, delle corse campestri, delle dancehall estive e dei barbecue
dei latinoamericani.
Realizzata con terra di riporto e detriti all'indomani del secondo
dopoguerra, quindi popolata di aceri, betulle e robinie, per i più
piccoli resta anzitutto la montagna con sotto i resti della città
sgretolata dai bombardamenti. Non è che un incoerente massiccio di
prati, bosco e sentieri, che cela il passato della città e si affaccia
sul suo presente. Dunque dove, se non da qui, dai suoi cinquanta metri
di elevazione, fermarsi ad osservare Milano?
Un lustro, cinque anni, se preferite 1826 giorni, separano le Immagini nella serie di dittici.



Dalla foschia emergono, guardinghe come animali selvatici, le gru.
Autentico simbolo del Novecento industriale, metafora di movimento per
alcuni e di indifferente speculazione per molti altri, sembrano
osservare curiose il territorio in cerca di una tana dove covare le loro
creature di cemento e vetro riflettente.
Le assicurazioni, il Bosco Verticale, le Varesine da un lato e il nuovo
palazzo di Regione Lombardia a fare da contraltare: nell'assetto
proprietario e nelle architetture di queste falliche affermazioni
verticali riscopriamo la mutata geografia dei poteri milanesi.
Concentrato tra Porta Nuova, la Stazione Centrale e Porta Garibaldi,
ritroviamo così uno dei poli di trasformazione più profonda di una città
che è sempre meno Isola.

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A ventre aperto si mostra, senza timidezza, l'ultimo nato.
Povero di mobilia, spoglio di ogni arredamento, si lascia trapassare
dalla luce da parte a parte, fino a perdere peso.
La testa del cantiere, invita i rami più arditi a retrocedere di fronte alla sua scalata.
Il resto della struttura, aggrappata alla colonna vertebrale massiccia
sostiene lo sforzo di elevazione e cerca, maliziosa, uno sguardo.
Non le importa sia uno sguardo di approvazione.

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Senza soluzione di continuità lo sguardo spazia nel divenire urbano.
Anche questa è skyline, anche se si usa scomodare l'inglesismo solo di
fronte all'incedere di guglie, punte, terrazze e antenne via via più
ardite. E' una città questa, diversa dall'immagine lineare del
sussidiario, quella con il centro e la periferia, il campanile a
scandire le ore e il municipio a regolare la vita umana. Nello spazio di
sedimentazione della realtà meneghina, tutto si mescola. E' un mosaico
di ricordi d'industria, di scampoli di commercio e di periferie, tante,
che si confondo con i centri, tanti, del terziario avanzato. Nel mezzo
brulicano, come in ogni stagione, gli umani.

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Il mutamento stira i confini del quartiere e ne accartoccia
l'immaginario alla ricerca di nuovi equilibri. La città si fa esclusiva
e quindi escludente per chi non non possiede il giusto outfit. Una
lezione che ha il sapore di accciai, grandi androni, superfici satinate
e specchiate.

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Dopo le vele di Scampia, anche quelle vele di citylife hanno virato il
discorso sulla città. Appaiono striate nella pozzanghera urbanistica,
lussuose zebre che guardano con fare naif e sprezzante all'intorno
incompiuto dell'antica fiera milanese. Più da vicino ne riconoscereste i
listelli di legno in stile nautico, nuovi eppure sbrecciati. E ancora
l'aspetto plastico e sinuoso ripreso da una qualche gallery
giornalistica sull'attico di questo o quel personaggio pubblico.
In esibito distacco l'antenna RAI osserva la scena, col suo
atteggiamento ferreo, di chi non si lascia stupire da una moda
passeggera e non dimentica la stagione dei tv color Mivar.

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E' ancora la città che emerge con la sua malcelata umanità. Il luogo dei
poteri e dei conflitti ma anche lo spazio di diversificazione per
eccellenza, delle opportunità (negate?) e delle possibilità impreviste.
Milano convive con le sue brutture come un adolescente di fronte al suo
specchio. Sinceramente poco coraggiosa, sepolta sotto una nebbia meno
fitta di un tempo ma non meno malinconica.
Cosa apparirà tra altri cinque anni? Lo scorgi nella cornea di nuove
ruspe o nel brulicare di uomini e donne seccati e desideranti?

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2010 - 2015
Cinquanta metri
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